Sono moltissime le cattive abitudini che costellano la nostra giornata (fumare, abbuffarsi, mangiarsi le unghie) e che meriterebbero di essere abbandonate per comportamenti più virtuosi.
Un compito molto difficile, anche quando scendono in campo esperti e psicologi.
Il problema è che ancora oggi l’approccio prevalente, almeno da parte dei medici è quello prescrittivo: non devi fare così , devi fare cosà.
L’atteggiamento prescrittivo può anche provenire da se stessi: i famosi buoni propositi, una sorta di autoimposizione, obiettivi che, nella nostra visione, dovrebbero essere raggiunti grazie alla forza di volontà.
Se finiamo di fallire nel compito è perché, per il nostro cervello, un’abitudine non è solo qualcosa di immateriale, ma è un automatismo profondamente radicato.
E’ l’effetto dell’abitudine.
Quando vogliamo acquisire nuove abitudini abbiamo bisogno di tempo e costanza, mentre quando vogliamo liberarcene spesso non ci riusciamo.
L’abitudine diventa qualcosa di appreso attraverso l’esperienza, per via della ripetizione costante acquisisce un elevato grado di fissità; una volta acquisite vengono eseguite in modo automatico.
Esiste un momento esatto un cui un gesto ripetuto molte volte diventa un’abitudine.
Bere troppo, mangiare troppo, spendere troppo, sono comportamenti che, in alcune persone, diventano abitudini.
Per evitare la tentazione bisogna avere autocontrollo.
Uno studio effettuato presso la George Mason University di Washington, ha dimostrato che questo meccanismo funziona solo in individui con un’autostima elevata e buone capacità di relazioni interpersonali e se si mette una certa distanza tra ciò che si decide di fare per abbandonare una cattiva abitudine e il momento in cui si dovrà procedere effettivamente.
Le persone prendono decisioni più razionali e controllano meglio i propri impulsi se programmano di farlo a distanza di tempo.
Quando arriva il giorno fatidico, il nuovo comportamento non è ancora un’abitudine dal punto di vista concreto, ma lo è già da quello mentale.
Tratto da un bellissimo articolo di Daniela Ovadia su Mente & Cervello di Marzo 2010
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